Trovo che il jazz possa essere paragonato a un dialogo a più voci, una vera e propria forma comunicativa attraverso i suoni. Essi non ci dicono nulla, ma si combinano deliziosamente. Questo significa che spesso non sono le parole ad essere importanti, ma il modo in cui le esprimiamo.

Il jazz in questo senso è una comunicazione a più voci perfetta. Attenzione: perfezione non è qui inteso come ordine rigoroso in cui tutti “parlano” con la stessa intensità e con la stessa durata. E’ una comunicazione ed è perfetta, perché i musicisti si ascoltano, si comprendono e proseguono o ribattono. Ribattere non è un atto comunicativo sbagliato, far valere solo il proprio punto di vista sì.

Ogni musicista fa il suo “discorso”, il suo solo, all’interno di un argomento scelto insieme: il tema. Nel free jazz il tema può addirittura scomparire in esperimenti di improvvisazione totale collettiva, dove dunque l’ascolto dell’altro è quanto di più fondamentale per andare a tempo e in armonia, per sapere dove inserirsi e come.
La comunicazione nel jazz prescinde da lingua, provenienza, nazionalità, conoscenza dei precedenti dell’altro.

La serata dell’8/10/2016 a Bioforme abbiamo avuto come ospite il Trio di Stefano Sernagiotto, sax, batteria e contrabbasso. Ci hanno dimostrato che anche persone che già “sanno di cosa parlare” hanno sempre qualcosa di nuovo da raccontarsi. Poi è avvenuta la comunicazione spontanea per eccellenza: la jam session. Musicisti di diverse band, tra cui Stefano del trio precedente, si sono uniti sul palco. Per una canzone anche assieme a una cantante statunitense, inaspettata ospite, dalla voce emozionatamente cupa e vibrante. Sembra quasi provenire da una generazione di schiavisti, che al ritmo binario originario del jazz raccoglievano e mettevano il cotone nella cesta, stanchi sotto al sole cocente. L’unica cosa che avevano erano i loro sentimenti, che sfogati li liberavano da una condizione di dolorosa fatica.

Se sotto il palco i rapporti sono complicati, perché la lingua è diversa, perché non ci si conosce, sul palco si parla attraverso la conoscenza diretta, disinibita dell’altro. Il jazz non dà tempo a ripensamenti, deve essere buttato fuori subito il sentimento primitivo, istantaneo: quello più vero. Quando si comunica attraverso i sentimenti autentici che proviamo, abbandonati i razionalismi, i preconcetti, i giudizi, l’orgoglio e tutto ciò che ci devia da una comunicazione spontanea, si arriva a godere veramente del dialogo dell’altro. Il jazz è spontaneità ed è sapere quando ascoltare e quando attaccare a “parlare”.

Certamente parliamo per i contenuti e ascoltiamo musica per godere esteticamente, ma penso che ascoltare un po’ di jazz ci porti beneficio. Penso che usando quest’ottica sia più facile riconoscere musica espressiva da musica piatta, che non comunica. Ogni musicista fa note diverse, usa strumenti diversi, eppure c’è la stessa armonia, lo stesso caos dei sentimenti che stanno dentro ognuno di noi, mirabilmente ordinato in musica.
Impariamo dal jazz: non fossilizziamoci ma esprimiamo tutta la diversità nella pienezza del nostro essere, infinito e finito allo stesso tempo.

Silvia Vites