falegname e Mani perdute

L’ultimo falegname

Il letto di ciliegio che allunga le nozze
di Mauro Corona

[articolo tratto da La Repubblica del 27 gennaio 2008]

Negli interessanti e istruttivi programmi culturali di tele-visione pubblica e privata, tra grandi fratelli, sorelle, cugini, isole, veline esalti ebani e quiz e altre robe senz’altro molto buone, manca un programma che si potrebbe chiamare Mani perdute. In Italia, ma forse nel mondo, stiamo perdendo l’uso delle mani e pare che nessuno se ne accorga. Perché allora non inventare un programma dove una troupe televisiva gira la no-stra vecchia penisola a intervistare e poi far vedere gli ultimi sopravvissuti che ancora fanno qualcosa con le mani? Chissà, potrebbe darsi che qualche giovane, vedendo Mani perdute, possa prendere passione e magari imparare uno di quei mestieri che ormai stanno scomparendo dalla nostra cultura.

Prendiamo a esempio il falegname.

Ce n’è più pochi ormai di falegnami in giro. I “marangons” li chiamavano in Friuli. Una volta, nei paesi di montagna, ogni casa era una piccola falegnameria. Prima ancora delle lenzuola, della dote o del mobilio, nella casa entrava il banco da falegname. I banchi si costruivano su altri banchi, le viti delle morse le tornivano dal duro maggiociondolo. Tutti i vecchi capifamiglia erano esperti falegnami, si diceva che erano capaci di fare le ali alle mosche. E insegnavano l’arte a figli e nipoti l’uomo andava a sceglierei legni per la mobilia due anni prima. Dovevano stagionare almeno ventiquattro mesi col muso a ponente, dove il sole va a morire, per diventare buoni, durare e non imbarcarsi.

Il letto matrimoniale lo facevano di ciliegio. Ha un colore rosso fiammato che accoglie bene e, dicevano, tiene unito il matrimonio, il suo profumo stimola la voglia alla donna. All’uomo non servivano stimoli o profumi. I travi dei soffitti erano di larice, assolutamente a vista. Dovevano guardare giù, verso quelli che dormivano o facevano l’amore o nascevano o morivano, spesso piangevano. Il larice era albero da protezione, faceva la guardia, spiava, controllava, dava consigli, guai a coprirlo con tavolame o intonaci. Li tagliavano in luna calante di novembre sui costoni rocciosi a piombo dei burroni. Perché li sul magro, crescevano poco, si stringevano per paura del vuoto e duravano secoli. Un larice grosso quanto un tubo da stufa, magro e spaventato, poteva durare cento cinquant’anni come ridere. Li squadravano a colpi d’ascia, senza pialla, perché venivano più belli. Ma parevano piallati tanta era la precisione che i falegnami tenevano nel colpo di manéra. Per misurare la bravura facevano gare a chi riusciva a tagliarsi i peli del polpaccio con un colpo di scure senza sbregarsi la gamba. Qualcuno se la sbregò. Quasi sempre accanto al banco c’era il tornio da legno.

Mancava un piatto?

Partiva il falegname di casa e dopo un quarto d’ora tornava con un piatto nuovo di zecca tornito da un acero bianco come neve. Per piatti, scodelle, ciotole catini era l’acero che comandava. Mancava una forchetta? Un cucchiaio? Dieci minuti e uno di famiglia andava in falegnameria (di solito una stanza apposta) e tornava con l’attrezzo pronto all’uso. Si rompeva una sedia? Mezza giornata e c’era un’altra sedia. Moriva qualcuno e tutti si offrivano di fare la cassa al paesano. Le culle le facevano in cirmolo, che mandava profumo di resina eterno e conciliava  il sonno al bambino inciuccandolo di effluvi. Le scavavano da un tronco unico poi le appendevano al soffitto con lunghe corde da fieno. Dando una spinta dondolavi per mezz’ora.

Tutta la casa, dopo l’opera dei muratori, se la facevano i falegnami di famiglia, e senza produrre un grammo di immondizia. Finestre, scuri , scale, solai, travi, capriate, ogni roba veniva lavorata sul posto, sotto tettoie improvvisate. Facevano e mettevano in opera, così la casa si completava e fioriva un po’ per volta, come un giardino. Giovani e bambini aiutavano e aiutando imparavano per quando erano grandi.

Poi veniva il mobilio: panche, scansie, cassapanche, letti, madie, cassettoni, attaccapanni, sedie, tavole: tutto di legno con chiodi di legno anche loro, oppure assemblati a incastro. Il tutto fatto nella falegnameria di famiglia. Ogni oggetto chiedeva un legno apposta. Armadi e cassettoni erano di pero e melo, essenze pastose a grana fine, che si puliscono da dio, e hanno colore caldo e riposante. Una mano di c’era d’api bollente mista a resina di larice teneva i tarli lontano chilometri. Cassepanche le facevano di tasso, duro come vetro, color rosso venato che è una meraviglia. Le panche invece erano di pino. Tagliato in luna calante di febbraio dà calore e si può lavare senza rovinarlo. Quando c’erano robe di legno che dovevano stare vicino al fuoco, cappe di camino, panche, pale di fornaio o altro, per quei lavori segavano i tronchi il primo marzo, dopo il tramonto, oppure gli ultimi due giorni di luna nuova di marzo. Tagliato in quel periodo il legno non piglia fuoco neanche a morire, nemmeno se gli avvicini la fiamma ossidrica. Tutti questi accorgimenti i falegnami li conoscevano e li mettevano in pratica. Seguendo le lune e i cicli delle stagioni si facevano le case, i mobili, gli strumenti, e tutto quel che occorreva per la vita. Dalla punta di un rametto di un giovane abete, cavavano un barometro infallibile. Non usavano nessun tipo di vernice, non davano pastrocchi o veleni ai manufatti.